Eccezionalità degli eventi meteorologici e dissesto idrogeologico
Eccezionalità degli eventi meteorologici e dissesto idrogeologico
La quantità e la intensità delle precipitazioni registrate nel Novembre del ’94 in molte località del Piemonte rappresentano un evento meteorologico di carattere eccezionale. Ciò nonostante, il ripetersi delle alluvioni nel nostro paese induce a compiere serie riflessioni sul rapporto che di volta in volta si configura tra la “eccezionalità” dell’evento e lo stato di grave dissesto idrogeologico che caratterizza gran parte del territorio nazionale.
Senza nulla togliere all’eccezionalità degli apporti pluviometrici occorsi nei primi giorni di Novembre ’94 sull’Italia Nord-occidentale va detto che non sempre alluvioni ed esondazioni trovano riscontro con situazioni di provata eccezionalità. In condizioni meteorologiche intensamente perturbate gli apporti pluviometrici possono essere molto consistenti e, in concomitanza a blocchi meteorologici, possono diventare anche persistenti. Ciò non costituisce però motivo sufficiente per definire eccezionali tali condizioni in ogni circostanza, così da considerare sempre accadimenti ineluttabili le conseguenti alluvioni, le distruzioni e, addirittura, la perdita di vite umane.
Nei giorni dell’alluvione in Piemonte è stato detto che, così come i giapponesi hanno imparato a convivere con i terremoti, anche gli italiani devono imparare a convivere con le alluvioni. I giapponesi convivono sì con i terremoti, ma in condizioni di sicurezza sempre maggiori, stante l’enorme sforzo compiuto dal loro paese in campo antisismico per ridurre al massimo i danni, sia in termini di perdite materiali che di vite umane. Nulla o molto poco invece è stato fatto concretamente in vaste zone del nostro paese, almeno da molti decenni a questa parte, per affrontare opportunamente le avversità meteorologiche che rappresentano un fatto piuttosto ricorrente, soprattutto in alcuni periodi dell’anno. Le precipitazioni infatti non sono così eccezionali come si può essere indotti a credere; invece sicuramente precario è lo stato idrogeologico dei suoli, che non può essere considerato idoneo per sopportare impatti meteorici di una certa consistenza. Frane ed esondazioni sono una conseguenza troppo ricorrente; in assenza delle naturali e necessarie azioni di rallentamento, contenimento ed assorbimento ad opera dei suoli, le acque piovane scorrono con troppa rapidità dai bacini di raccolta ai corsi d’acqua preposti al loro deflusso. La trascuratezza di troppi governi e la sconsiderata azione dell’uomo sul territorio, soprattutto là dove le difese naturali avrebbero dovuto rimanere integre e inalterate o essere addirittura potenziate, hanno ormai esposto il nostro paese alla mercé delle avversità atmosferiche, anche di quelle che non possono oggettivamente essere definite di grande eccezionalità. Ecco allora le alluvioni come fatto davvero ineluttabile, con tutte le gravi conseguenze che ne possono derivare e che per il paese rappresentano un impatto economico spesso troppo oneroso, valutabile in milioni di euro.
Per meglio comprendere le cause che sono all'origine di tante alluvioni, quelle ovviamente riconducibili a cause meteorologiche, è necessaria una opportuna descrizione dei molteplici aspetti che caratterizzano lo scenario idrografico e che quindi possono essere causa di accidentali fuoriuscite (esondazioni) dai sistemi d’invaso disponibili. Possiamo iniziare subito con il dare una prima risposta al perché di tanti episodi alluvionali e dire che all'origine di tali accadimenti c’è il profondo dissesto idrogeologico del nostro territorio. Per quanto concerne l’aspetto geologico va detto con chiarezza che i dissesti del suolo fanno parte del normale ciclo geomorfologico e che l’azione di essi non può mai essere arrestata del tutto, ma solo controllata e ritardata. È necessario a tale proposito intervenire con opportune strategie nella difesa dei suoli, allorquando fenomeni erosivi e franosi sono in una fase iniziale o meglio ancora allo stato latente, cercando di individuarne le cause specifiche. Indispensabile è altresì considerare i bacini imbriferi come unità inscindibili, su cui intervenire con unicità di impostazione e organicità di intenti; in tal senso si può dire che la tutela della pianura non può e non deve prescindere dalla difesa della montagna.
Le grandi calamità abbattutesi sull’Italia (si ricordano in particolare quelle del Novembre 1966 in Toscana e nel Trentino e del Novembre 1994 in Piemonte) hanno mostrato ancora una volta come i processi di formazione e i caratteri di una corrente idrica con le sue “torbide” siano da considerarsi in stretta connessione con gli elementi di geomorfologia delle aree di drenaggio, onde nel regolarli non si può prescindere dall'ambiente di monte nel quale detta corrente si genera e può trovare probabilmente le migliori possibilità di regolazione e di laminazione. Per quanto riguarda il sistema idrografico va detto inoltre che per evitare gli effetti disastrosi delle piene che oggi si verificano con troppa frequenza, il regime torrentizio di molti corsi d’acqua avrebbe bisogno di una maggiore elasticità di regolazione mediante vaste aree-serbatoio nelle quali l’acqua possa accumularsi durante le piene per poi defluire a valle con maggior lentezza. L’agricoltura, bisogna dirlo, ha gradatamente sottratto ai fiumi le naturali aree di espansione, mentre l’uomo ha occupato tutte le larghe vallate interne, le ha sottratte con opere di difesa all'invasione delle acque, le ha coltivate ed abitate; ha inoltre arginato i corsi d’acqua nel loro tratto terminale, per guadagnare terreno alle coltivazioni, rendendo pensili nel tempo tutti i loro alvei. Il sistema idrografico è stato così progressivamente irrigidito dall'opera dell’uomo ed ha perduto quindi ogni flessibilità. L’aumentata erosione dei terreni, particolarmente nell'area collinare e montana, e la drastica riduzione di elasticità dei corsi d’acqua, divenuti sempre più sedi d’invaso ad elevato scorrimento delle acque, sono lo scenario che attualmente caratterizza la maggior parte dei bacini idrici del nostro territorio. Alle cause naturali vanno dunque aggiunte da un lato le dannose azioni attribuibili all’opera dell’uomo, dall’altro gli inadeguati interventi dello Stato in termini di opere a difesa e salvaguardia dei suoli.
L’azione dell’uomo ha prodotto negli anni recenti modificazioni da non trascurare ai fini dell’aggravamento del dissesto idrogeologico e questa azione ha assunto le forme più disparate: dall’abbandono dei terreni coltivati in collina, allo smantellamento dei boschi, alla sottrazione di spazi alluvionali naturali per la costruzione di manufatti, talora anche arditi, o per esigenze agricole. Sicuramente grave è il progressivo spopolamento delle aree collinari con il conseguente abbandono delle zone coltivate, che lasciano i declivi sempre meno protetti dall’azione erosiva delle acque dilavanti. Se inoltre l’opera di disboscamento (compresa quella provocata dagli incendi) non si può ritenere la causa unica dell’andamento catastrofico che in Italia possono assumere eventi meteorici di portata anche non eccezionale, essa è certo da ritenersi una concausa, talora anche di rilevante peso, almeno agli effetti dell’erosione e dei trasporti solidi.Le piene dei corsi d’acqua, con notevole trasporto di materiali grossolani e torbidi, causano tutta una serie di problemi che si ripercuotono a valle: rapido interrimento dei laghi artificiali, intasamento dei canali, collegamento degli alvei fluviali con riduzione progressiva della capacità di smaltimento delle piene, sommersione e talvolta ricopertura definitiva dei terreni disposti a coltura. Come l’asportazione del manto delle colline ad opera delle acque dilavanti in un contesto ambientale degradato, altrettanto grave è il sollevamento del fondo degli alvei fluviali prodotto per sedimentazione del trasporto solido. I fiumi pensili nelle pianure italiane sono ormai numerosi e vanno a pregiudicare realtà radicate come case, opere pubbliche e attività umane, impostate senza alcun criterio logico o motivo economico serio in località prossime o sottoposte a suddetti fiumi, così da essere soggette continuamente a disastri per alluvionamento. Troppe volte si è infatti constatato che le vittime di alluvioni o esondazioni si sono avute solo lungo i corsi d’acqua e in quelle sedi che si sarebbero dovute lasciare al libero svolgersi dei fenomeni naturali.Uno dei principali aspetti economici riguardanti la soluzione delle arginature dei fiumi pensili, consiste nello stabilire l’entità della piena che si vuole contenere tra gli argini e la probabilità che essa si possa verificare.
Per il Po ad esempio l’altezza degli argini è stata fissata da una commissione internazionale in relazione ad una portata massima contenuta tra gli argini da foce Mincio a Serravate, 12.000 m3/s, e corrispondente ad un evento che può ricorrere una volta ogni 100 anni e anche più. Va detto però che la zona del delta padano è stata più volte invasa dalle acque del fiume in questi ultimi anni, non tanto per il carattere eccezionale delle portate, bensì perché localmente il terreno ha subito un abbassamento di 2 metri in seguito alle estrazioni di metano. In quell'area ormai non è più possibile garantire in modo economico la difesa dalle piene di 12.000 m3/s, per le quali erano state proporzionate le arginature esistenti. Nella lotta all’erosione, alle frane e alle esondazioni, sono importanti i cosiddetti rimedi indiretti, quelli cioè che mirano soprattutto alla eliminazione delle cause e che possono essere ravvisati nel modellamento delle pendici tendente a regolare i deflussi superficiali (come ad esempio i terrazzamenti) nell’imboschimento e rimboschimento, negli imbrigliamenti tendenti a sostenere i fianchi di accentuate depressioni o incisioni, negli invasi di regolazione delle piene, nelle opere di consolidamento e adeguamento delle arginature. Fra i metodi suddetti, adottabili a volte in montagna, a volte in pianura e da valutarsi opportunamente caso per caso, merita un commento particolare l’efficacia del bosco, soprattutto perché è stata e tuttora rimane costante fonte di polemiche.
Nel passato si è molto discusso in Italia sul potere del bosco in fatto di regolazione idrica e si è anche criticato il vincolo idrogeologico imposto per il nostro paese dalla Legge Serpieri del 1923, che imponeva divieto alle denudazioni dei suoli e perdita di stabilità dei terreni come conseguente turbativa del regime delle acque. Dopo l’alluvione del Po del 1951 G. De Marchi così si esprimeva in merito al rimboschimento del grandi bacini: “il bosco esercita indubbiamente un’azione molto utile per il rinsaldamento delle pendici e la diminuzione dei fatti erosivi; sta di fatto però che se il bacino del Po fosse per intero coperto da bosco, le maggiori piene del fiume non risulterebbero in alcun modo diverse dalle attuali”.Spesso in passato si è guardato, anziché al bosco, all’opera di sistemazione idraulico-agraria; con il variare delle realtà agronomiche ed economiche della collina, il bosco assume ovviamente un diverso significato anche perché i terreni, un tempo coltivati e oggi abbandonati, non possono essere lasciati ad un destino di progressivo degrado erosivo. Come si è già avuto modo di dire, infatti, a tale degrado sono connessi in gran parte i pericolosi carichi intorbidanti che i fiumi veicolano a valle nelle fasi di piena. L’azione del bosco si manifesta come opera di smistamento delle precipitazioni, intercettate prima dai rami e dalle foglie, poi dal sottobosco, dalla copertura morta, dall’humus e dal terreno forestale. È una efficace stratificazione che filtra, trattiene e cede acqua in modo che essa defluisca lentamente senza asportare prezioso terreno e senza intorbidarsi, favorendo inoltre, entro certi limiti, l’infiltrazione negli strati profondi. Ma il meccanismo attraverso cui il suolo forestale opera la regolazione idrica è alquanto complesso; basta ad esempio l’asportazione della copertura morta per provocare, a parità di copertura arborea e arbustiva, una notevole riduzione dell’infiltrazione fino a decuplicare il deflusso superficiale. Ancora più diretta è poi l’azione intercorrente tra tipo di humus (dolce, acido, micogeno) e capacità di infiltrazione di acqua che, a seconda del caso, può ridursi fino a divenire pressoché nulla. Inoltre non è sufficiente dire genericamente che il bosco esercita una significativa azione sul regime delle acque, giacché questa funzione è svolta con pienezza esclusivamente da certi tipi di bosco. Per quanto riguarda infine i rapporti tra il bosco e il controllo delle piene va detto che, stante l’efficacia della vegetazione nei confronti dell’erosione, si tende a confondere la conservazione del suolo (fatto comunque importantissimo) con il controllo delle grandi piene. È evidente che in caso di pioggia intensa e persistente si determina nel tempo una diminuzione della capacità di infiltrazione, perciò in condizioni di terreno saturo di acqua non sussiste diversità di scorrimento superficiale passando da zone coperte a zone nude. Si può verificare però, a seconda dello stato superficiale dei suoli, un’efficace erosione dei declivi montani e collinari oppure no, con ovvie conseguenze in termini di trasporti torbidi e quindi di efficienza degli alvei a smaltire le correnti di piena.
Gli interventi per riparare il grave dissesto idrogeologico, presente nella quasi totalità dei bacini idrografici del nostro territorio, sono una necessità indilazionabile se si vogliono ripristinare, là dove ancora possibile, condizioni che diano garanzia sotto il profilo dell’attività erosiva. Correggere i dissesti presenti costituisce però un problema laborioso e molto delicato, che richiede competenze diversificate e molto attente, onde evitare facili errori e sperpero di denaro. Così, per quanto concerne il bosco, tanto per tornare su un aspetto molto discusso, bisogna ricordare che là dove è stato il disboscamento a produrre dissesto, non è affatto cosa facile ristabilire le condizioni primitive, data la grande difficoltà di fare attecchire gli alberi in zone dove il degrado dei suoli ha raggiunto uno stadio avanzato, con grave perdita di fertilità. Nell’assetto territoriale delle aree minacciate va poi posto in rilievo uno studio rigoroso di piani urbanistici ispirati alla valutazione di tutte le particolari conseguenze di ordine idraulico e idrogeologico. Per i centri abitati, ormai dissestati e gravemente lesi, va posto in primo piano il confronto economico tra le spese che comporterebbero le opere di sistemazione necessarie e i benefici che nel migliore dei casi potrebbero derivare dall’intervento. In quest’ottica anche le decisioni di impopolari trasferimenti possono essere ritenute valide nei casi in cui si riconosca a priori la inutilità dell’intervento nell’area dissestata. Per concludere si può dire che, aldilà di ciò che è possibile ottenere o non ottenere attraverso interventi tecnici particolarmente idonei e mirati, una cosa deve sempre e comunque essere tenuta ben presente, e cioè che schiere di case che costringono gli alvei fluviali entro sedi ristrette, ponti che costituiscono sbarramento su corsi d’acqua, destinazione a coltura di aree irrimediabilmente minacciate, devono essere considerati un retaggio da non ripetere in futuro.
Osservazioni e note
1)Per blocco meteorologico si intende una situazione sinottica caratterizzata dalla presenza di configurazioni anticicloniche stazionarie, che ostacolano (bloccano) il movimento delle perturbazioni nel loro naturale incedere verso levante. Nel caso dell’Italia l’anticiclone può posizionarsi sull’Europa Orientale estendendo la sua azione verso le regioni adriatiche (situazione caratteristica della stagione fredda) o stazionare sull’Atlantico bloccando una configurazione depressionaria sulla nostra penisola. Una situazione del tipo indicato per la stagione fredda era presente sia in concomitanza all’alluvione occorsa in Toscana nel Novembre 1966 che in quella che ha investito il Piemonte nel ‘94.2)I dati del trasporto torbido raccolti per il Po a Pontelagoscuro nel periodo 1956-1963, indicherebbero in 15 milioni di tonnellate il deflusso torbido medio annuo, di cui più del 70% sarebbe da attribuirsi agli aumenti appenninici.
Tratto da un articolo di Gianfranco Simonini, AER, Novembre ‘94.