CALORE E FENOMENI INTENSI
CALORE E FENOMENI INTENSI
Se qualcuno ricorderà, l’occasione per parlare di questo argomento si presentò a inizio novembre, quando l’Oceano Atlantico attraversò una fase atmosferica caratterizzata da ciclogenesi particolarmente violente. Approfitto allora della pausa natalizia per riprendere questo tema e dimostrare, in modo molto semplificato, proprio come il calore contribuisce alla fenomenologia estrema alle diverse scale spazio-temporali: per farlo, mi avvalgo del secondo principio della termodinamica. Partiamo da un concetto di base: il motore atmosferico che produce i fenomeni meteorologici è, in prima approssimazione, simile al motore di una macchina termica ideale (di Carnot) che opera tra due sorgenti che si trovano a diverse temperature: una sorgente calda che ha temperatura Tc e una sorgente fredda che ha temperatura Tf.
Per capire come avviene questo funzionamento, vediamo che cosa dice l’enunciato di Clausius relativo proprio al secondo principio della termodinamica sopra menzionato. L’enunciato afferma: «È impossibile realizzare una trasformazione il cui unico risultato sia quello di trasformare integralmente in lavoro il calore sottratto da un’unica sorgente». Vediamo che cosa significa, dal punto di vista meteorologico. In parole semplici, diciamo che è impossibile per l’atmosfera prelevare del calore dai bassi strati (la sorgente calda) e trasformarlo tutto in lavoro producendo proprio i fenomeni atmosferici quali sono le perturbazioni e le idrometeore.
Per non violare il secondo principio, è necessario che una parte di questo calore prelevato venga ceduto alla troposfera, dove risiede in pratica la nostra sorgente fredda: questa cessione si verifica per esempio durante la condensazione del vapore acqueo in nubi perché in questo processo, come è noto, viene liberato calore latente. Facciamo ora un esempio pratico. Supponiamo di trovarci in una situazione meteorologica di stampo estivo, caratterizzata dalla presenza di aria calda nei bassi strati (sorgente calda), avente una temperatura di 30 °C, cioè di 303 K (gradi Kelvin). Supponiamo poi che in quota, a 500 hPa, transiti una goccia fredda avente una temperatura di -20 °C, cioè di 253 K (sorgente fredda). La situazione appena descritta è tipica di una condizione instabile dell’atmosfera che produce rovesci e temporali che sono di solito tanto più intensi quanto è maggiore l’energia – e quindi in calore – in gioco.
Tenendo conto dei dati di temperatura delle due sorgenti, calcoliamo il rendimento R della macchina utilizzando la formula inserita nell’immagine: si ottiene facilmente un valore pari al 17%. Ripetiamo ora il calcolo dopo che il temporale ha rovesciato l’aria fredda presente in quota e ha così raffreddato i bassi strati. Nella nuova situazione, supponiamo che in prossimità del suolo ci siano ora 15 °C, cioè 288 K che diventano così la temperatura della sorgente calda: in questo caso il rendimento diminuisce fino al 12%. Abbiamo così ottenuto un rendimento inferiore proprio perché è cambiata la temperatura della sorgente calda, cioè della sorgente che fornisce la linfa ai fenomeni meteorologici. Un rendimento inferiore significa che l’atmosfera ha meno potenziale per produrre fenomeni intensi e, infatti, è proprio quello che ci aspettiamo dopo un temporale scaccia-caldo: eventuali fenomeni di instabilità che seguono non sono più così intensi come quelli iniziali che si sviluppano durante il cambiamento dello stato termodinamico dell’atmosfera, cioè nel momento in cui aria fredda raggiunge un’area precedentemente occupata da aria calda. Seguendo lo stesso principio, il discorso è analogo per tutti i fenomeni meteorologici in cui c'è del calore che deve essere consumato.
Ricordo a tutti i nostri lettori che, su facebook, potete trovarmi anche alla pagina di Meteorologia Andrea Corigliano a questo link. Grazie e buona lettura!
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Andrea Corigliano, fisico dell'atmosfera