Il buco di ozono sull’Antartide e il depauperamento alle medie latitudini
Il buco di ozono sull'Antartide e il depauperamento alle medie latitudini
È noto che con la definizione “buco dell’ozono” si intende la forte diminuzione di ozono stratosferico che si registra ad ogni primavera australe a partire dagli anni settanta, in gran parte del territorio antartico. Al Polo Nord il fenomeno, determinato dalle stesse cause, presenta dimensioni abbastanza ridotte, tali da non costituire motivo di grave preoccupazione nell'immediato futuro. Alle medie latitudini invece si riscontra un progressivo depauperamento dello strato di ozono stratosferico che suscita molta preoccupazione e che rende necessario un impegno ben maggiore da parte della comunità internazionale.
Col termine “buco di ozono” si intende il fenomeno periodico che determina una drammatica diminuzione del contenuto colonnare di ozono su una vasta area della regione Antartica durante la primavera australe. Il primo articolo scientifico sull’argomento è dovuto a Farman nel 1985: basandosi su osservazioni fatte alla stazione di Halley Bay con uno spettrofotometro Dobson, egli notò una forte diminuzione dei livelli di ozono durante la primavera australe, che si erano verificati nel periodo 1980-84. L’analisi dei valori medi relativi al mese di Ottobre, per la stessa stazione dal 1956 al 1994, evidenzia come negli anni 50-60 i valori oscillano poco sopra le 300 DU, iniziano a diminuire durante gli anni 70, con una velocità che aumenta notevolmente nella seconda metà degli anni ‘80. I dati relativi ai primi anni 90 scendono a valori inferiori alle 150 DU. Convenzionalmente si può fissare una soglia di circa 200 DU, sotto la quale si può parlare di buco di ozono: infatti questo valore risulta inferiore ai livelli imperturbati (relativi alla regione antartica e per il periodo primaverile) di circa il 30%. Le osservazioni di Farman furono ben presto confermate da misure effettuate in altre stazioni antartiche, e ancor più da misure da satellite. Grazie a queste ultime sappiamo anche che l’estensione orizzontale del “buco” è tale da ricoprire buona parte del continente Antartico. Inoltre il fenomeno presenta una chiara periodicità annuale, in quanto si ripresenta ad ogni primavera australe ed al suo termine i livelli di ozono ritornano su valori normali.
Tra le diverse teorie formulate nel tentativo di spiegare l’insolito e preoccupante fenomeno, la maggiormente plausibile indicava come responsabile l’aumento in atmosfera della concentrazione di alcune sostanze antropogeniche, note col nome di clorofluorocarburi (CFC). Per ironia della sorte, queste sostanze erano state scelte (come propellente per bombolette spray, per impianti di refrigerazione e fabbricazione di schiume plastiche) principalmente a causa della loro inerzia chimica. Ma, proprio a causa della loro stabilità, i CFC vengono lentamente trasportati in alto, senza subire alcuna trasformazione chimica, fino allo Stratosfera, dove la componente LV della radiazione solare (che a queste quote risulta particolarmente intensa) le scinde, liberando composti del cloro fortemente reattivi, che aggrediscono le molecole di ozono. Queste semplice teoria non riesce comunque a spiegare come l’azione distruttiva dei composti di cloro si verifichi solo (o comunque in maniera così preponderante) in Antartide e con un andamento stagionale. La teoria attualmente più accreditata, nota col nome di “teoria delle PSC” riesce a spiegare questa apparente anomalia, invocando condizioni dinamiche e climatiche estremamente particolari, che si verificano nelle regioni antartiche durante la stagione primaverile.
Il primo elemento della teoria è la presenza del Vortice Polare, una particolare situazione meteorologica, che determina un sostanziale isolamento della Stratosfera polare dalle masse d’aria circostanti. Il Vortice si instaura in pieno inverno, si indebolisce progressivamente durante la primavera per poi dissolversi generalmente alla fine di Novembre. All’interno del Vortice, le temperature in Stratosfera scendono spesso sotto -80°C, permettendo la formazione delle Nubi Stratosferiche Polari (PSC), formate da cristalli di acido nitrico (PSC di tipo I) o meno frequentemente di ghiaccio (PSC di tipo II). Sulla superficie di queste nubi avvengono reazioni chimiche di tipo eterogeneo (che coinvolgono cioè specie chimiche in fasi diverse, sia gassose sia solide) che trasformano i composti di cloro normalmente inerti in forme più reattive, tra cui Cl2 ed HOCl. Con la fine della notte polare la radiazione solare, pur debole, innesca reazioni di fotodissociazione che producono composti di cloro particolarmente attive, come ClO. Quest’ultimo è responsabile di un ciclo catalitico particolarmente efficiente nella distruzione dell’ozono, il cui bilancio netto è:
Nella sua forma completa la teoria delle PSC comprende molti altri reagenti chimici (ad es. halon e composti di bromo) ed un numero estremamente elevato di reazioni, maggiore di 100; tuttavia, le condizioni per la formazione del buco d’ozono sono sostanzialmente quelle elencate in precedenza: il Vortice Polare, i composti di cloro e temperature estremamente basse. La teoria delle PSC è stata suffragata da un numero molto elevato di verifiche sperimentali in loco ed in laboratorio, come pure con l’ausilio di modelli matematici. Solo alcuni elementi di questa complessa teoria sono ancora controversi e richiedono pertanto ulteriori studi. Intanto la deplezione di ozono in Antartide si ripresenta ogni anno sempre più intensa: i valori relativi al Settembre 1994 risultano i più bassi in assoluto rispetto a quelli relativi allo stresso mese degli anni precedenti. Circa tre quarti del continente antartico era caratterizzato da valori inferiori alle 150 DU, ed in numerosi punti si sono osservati valori minori di 100 DU. In termini percentuali ciò significa una diminuzione dello strato di ozono su larga scala del 55-65 %.
La situazione in Artide
La situazione dinamica e climatica della regione polare artica risulta differente rispetto a quella dell’Antartide. Innanzi tutto il Vortice Polare Artico risulta molto più debole di quello antartico; inoltre le temperature invernali della Stratosfera artica risultano in media notevolmente maggiori delle corrispettive temperature antartiche. In ogni modo anche all’interno del Vortice artico sono state osservate PSC, anche se con minore estensione e frequenza, ed il conseguente incremento di ClO tra Dicembre e Gennaio. Ma il riscaldamento della atmosfera artica, che avviene generalmente a Febbraio, e quindi prima che la radiazione solare raggiunga vaste aree, impedisce l’innescarsi dei cicli catalitici di distruzione dell’ozono su vasta scala. Insomma è una questione di coincidenze non rispettate. Naturalmente questo vale a livello generale, in quanto le variabilità interannuali possono modificare la situazione. Ad esempio nell’inverno 1992/93 le basse temperature della Stratosfera polare si sono mantenute un po’ più a lungo rispetto agli anni precedenti, e si è verificata una consistente deplezione di ozono alle alte latitudini Nord, di circa il 10-20%. Questo da una parte fornisce una ulteriore conferma della teoria delle PSC, dall’altra dimostra che l’emisfero Nord è molto vicino alle condizioni necessarie per l’instaurarsi di un situazione analoga a quella antartica. Un ruolo chiave a questo riguardo potrebbe essere giocato dall’effetto serra: questo infatti se da una parte riscalda i livelli più bassi dell’atmosfera, dall’altra può provocare un raffreddamento ai livelli più alti. In definitiva, anche se attualmente il buco nell’emisfero Nord non c’è, dobbiamo stare in guardia. Per questo motivo negli ultimi anni si è intensificata l’attività di studio della Stratosfera polare artica, cercando di unire e coordinare le risorse delle diverse nazioni, in particolare nell’ambito della Comunità Europea. In questo modo è nato il progetto EASOE (European Artic Stratospheric Ozone Experiment), che si è svolto nell’inverno 1991/92, e che ha avuto come seguito SESAME (Second European Stratospheric Artic and Midlatitude Experiment). Quest’ultimo, la cui attività sperimentale è stata condotta durante l’inverno ‘94/’95, ha coinvolto più di 300 ricercatori provenienti da oltre 21 nazioni, tra le quali quasi tutte quelle europee, Canada, Giappone, Russia e U.S.A. I risultati preliminari di questa ricerca indicano che durante l’ultima stagione invernale all’interno del vortice si è verificata una deplezione di ozono maggiore di quella osservata negli anni precedenti, e che in alcuni casi ha raggiunto il 50% alle quote comprese tra i 16 ed i 18 km.Alle medie latitudini
Alle medie latitudini i processi depletivi descritti in precedenza non possono avere luogo per evidenti motivi, e pertanto non si verificano situazioni paragonabili a quelle antartiche. Tuttavia, l’analisi di serie storiche di dati ha evidenziato la presenza di un trend negativo nei valori di ozono in Stratosfera, che a differenza delle regioni polari riguarda tutte le stagioni. A titolo di esempio i valori di ozono totale sopra Bologna nel periodo 1979-1994, in base a misure TOMS mostrano una diminuzione del 5% circa ogni 10 anni. Valori simili sono stati calcolati per tutta la fascia delle medie latitudine Nord, mentre diminuzioni più consistenti sono state osservate nell’emisfero Sud. Le cause di questa diminuzione non sono ancora completamente chiare: molto verosimilmente sono dovute a due effetti combinati: fenomeni di deplezione locale ed “effetto diluizione” (trasporto alle medie latitudini di masse d’aria impoverite di ozono provenienti dai poli). Bisogna comunque fare presente che l’evidenziare trend depletivi alle medie latitudini risulta difficile e molto differente rispetto al caso delle zone artiche. In queste ultime infatti la deplezione è così intensa che oltrepassa ogni variabilità naturale, mentre nelle nostre latitudini i processi di deplezione sono in qualche modo mascherati dai cicli naturali dell’ozono. La quantità colonnare di ozono in atmosfera è infatti soggetta ad una forte variabilità stagionale, legata ai processi di creazione e trasporto su larga scala. Oltre al ciclo stagionale, l’ozono in Stratosfera subisce modulazioni di minore intensità su scale temporali più lunghe, come la oscillazione quasi biennale (QBO) e quella dovuta al ciclo solare, che presenta una periodicità di 11 anni. Bisogna inoltre considerare le perturbazioni naturali “straordinarie” dovute ad esempio a particolari eventi di tipo solare ed alle eruzioni vulcaniche. Il primo tipo è dimostrato produrre effetti di piccola entità e solo nella zona più alta della Stratosfera, che contribuisce in maniera estremamente piccola al bilancio di ozono in atmosfera. Le grandi eruzioni vulcaniche, come quella di El Chichon (1983) e del Pinatubo (1991), possono invece produrre effetti rilevanti nella bassa e media Stratosfera, dove è massima la concentrazione di ozono. Il rilascio di enormi quantità di composti di zolfo in atmosfera, che segue le eruzioni esplosive, porta alla formazione di una nube di aerosol, che si espande velocemente su vaste porzioni della atmosfera terrestre, sulla cui superficie avvengono reazioni in qualche modo simili a quelle che avvengono sulle PSC, il cui risultato ultimo è sempre la distruzione di molecole di ozono. Gli effetti delle eruzioni vulcaniche hanno comunque una durata relativamente breve, stimabile in circa tre anni. Se da una parte questi fenomeni transitori rendono più difficile lo studio dei trend depletivi di natura antropogenica a lungo termine, dall’altra costituiscono un ottimo laboratorio naturale per verificare le teorie di distruzione chimica dell’ozono.Conclusioni
Una volta appurata l’origine antropica della deplezione dello strato di ozono, molti tentativi sono stati fatti per limitare l’emissione delle sostanze che determinano questo fenomeno. Le difficoltà sono duplici: tecniche e politiche. Da una parte occorre trovare alternative ai CFC ed alle altre sostanze dannose per l’ozonosfera, di costo limitato e senza altri “effetti collaterali” sull’ambiente (es. effetto serra); dall’altra convincere (o costringere) le industrie a cambiare i cicli produttivi che coinvolgono tali sostanze. Il protocollo di Montreal è stato solo il primo punto fermo di questo processo, e un gruppo di lavoro appositamente creato continua il lavoro sia scientifico sia politico che viene formalizzato in ulteriori emendamenti al protocollo. Bisogna comunque ricordare che una caratteristica peculiare dei CFC è la loro vita estremamente lunga (decine di anni), il che significa che l’azione attuale porterà i suoi frutti in tempi estremamente lunghi. In base a recenti stime, anche assumendo una osservanza completa del protocollo di Montreal, i composti di cloro continueranno ad accumularsi in Stratosfera, raggiungendo il livello massimo nei primi anni del prossimo secolo. Di conseguenza la deplezione dello strato di ozono continuerà ad aumentare nei prossimi anni: e bisognerà aspettare la metà del prossimo secolo prima che la situazione ritorni alla normalità. Tutto questo, è bene ricordarlo, nell’ipotesi ottimistica di un completo rispetto del protocollo di Montreal e successivi emendamenti.Note: l'articolo è datato 1995, ma ripercorre bene i primi concetti fino allo stato delle conoscenze negli anni '90. Ulteriori approfondimenti possono essere trovati qui (da cui abbiamo tratto anche l'immagine sopra). L'ozono entra anche nei modelli numerici e noi ad esempio lo usiamo per il calcolo dell'indice UV nelle previsioni meteo.
Tratto da un articolo di F. Ravegnani, Giugno '95.